Ottobre '97: libertà vigilata
Una ragazza magra, sui ventitré anni era intenta a truccarsi mentre pensava a quella che avrebbe dovuto essere la sua famiglia: una bambina di cinque anni piazzata alla cugina e un uomo finito chissà dove. Le sue dita nodose passarono con attenzione la matita sul contorno del labbro superiore e misero il rossetto con il pennellino. Guardando il suo riflesso sullo specchio pieno di ditate si chiese se non si fosse data troppo trucco.
“Rachele! Hai finito?”
Quella grassona di Anna rompeva.
“Un minuto! E che cazzo!”
E poi pretendono di chiamarla libertà, vigilata, ma libertà la chiamano!
Si sciacquò le mani ed uscì dal bagno, davanti alla porta stava Anna con quel suo grugno incazzato.
“Ecco, è tutto tuo il cesso.”
Spianò le pieghe sulla minigonna e pensò che forse sarebbe stato meglio non mettersi tutta in tiro con i vestiti di quella vecchia prostituta ladruncola della sua compagna di stanza. Guardò Nicola, il tizio quasi-secondino che doveva starle tra le scatole quella sera. Un pigro. Era sbracato sulla sedia di plastica e biascicava una gomma.
“Posso uscire?”
Quello fece un assonnato cenno di assenso indicando la porta. Rachele uscì. Fuori c’era un vento gelido: forse aveva davvero esagerato con quei vestiti, le sembrava di dover andare a battere, ma ormai era troppo tardi. Prese la metro, le stazioni deserte si susseguivano davanti ai suoi occhi mentre si avvicinava al centro. La ragazza continuava ad immaginarsi il volto di sua figlia che sicuramente stava già dormendo. Scesa dal treno raggiunse una di quelle viuzze laterali che danno sulla piazza e dopo qualche passo sull’asfalto bagnato si fermò a guardare il locale dove aveva passato tante notti insonni. Erano le dieci di sera di un giorno feriale ed il bar aveva già assunto l’atmosfera particolare dei posti chiusi: gli sgabelli erano appoggiati sul bancone, i bicchieri tutti puliti e in ordine, le bottiglie di alcolici luccicavano alla debole luce che veniva dal retro. Entrò silenziosamente e si avvicinò cauta alla porta della stanza illuminata alla ricerca di Grazia, la proprietaria. Erano amiche da tempo e anche se non si vedevano da tanto, Rachele ricordava le sue abitudini, come quella di tornare a casa a tarda notte dal lavoro. Sbirciando, infatti, era riuscita a vederla controllare che la porta di servizio fosse ben chiusa. Bussò, si salutarono e parlarono un bel po’ prima che Rachele arrivasse al punto:
“Sai che fine ha fatto Alex?”
“So che si è fatto qualche mese per detenzione di stupefacenti, ma adesso non ho la più pallida idea di dove sia. Puoi sentire Alberto al pub, magari sa qualcosa più di me, io non so altro.”
“Grazie lo stesso Grazia, mi sei stata d’aiuto comunque. Adesso ti lascio tornare a casa, buonanotte.”
“Buonanotte. Guarda di farti vedere un po’ più spesso.”
Uscendo dal bar di Grazia, Rachele si chiese per l’ennesima volta se fosse una buona idea andare a cercare quel poco di buono, ma non ci pensò a lungo. Le apparve davanti agli occhi l’immagine di sua figlia, si disse che a quell’ora stava sicuramente dormendo; si decise a continuare la ricerca ed allungò il passo. Stava attraversando strade buie e deserte e avrebbe avuto paura di incontrare qualche delinquente se non si fosse sentita lei una delinquente con quei vestiti e la libertà vigilata da scontare per altri sette mesi. Al pub c’era gente, e neanche poca; entrò e si guardò intorno cercando qualche volto conosciuto. Era lì, Alex. Lo riconobbe in mezzo ad un gruppo di persone, aveva una bottiglia in mano e discuteva animatamente con un tizio puntandogli un dito contro. Rachele lo chiamò, lui si voltò. Dalla sua faccia si vedeva che non era soltanto sbronzo, all’inizio non la riconobbe e si avvicinò.
“Oh, buonasera bella troietta, sei tornata per scopare con me?”
Rachele capì non era affatto un buon momento per parlargli, la sua testa si affollò di voci che non facevano altro che ripetere: come ha fatto a venirti in mente un’idea simile! Fece per andarsene come se non fosse successo niente, ma Alex la spinse contro il muro.
“Che cazzo fai? Te ne vai? Brutta troia! Puttana! Mi hai rovinato la vita!”
Continuando a gridare, spaccò la bottiglia contro il muro.
“Alex lasciami stare. Non è stata colpa mia...”
“Ah, davvero? Stronza! Sei stata una stronza! Lo sapevi che Omar mi aveva dato la roba quella sera! Troia!”
Voleva gridargli contro, arrabbiarsi con lui, urlargli di smetterla, che adesso poteva avere una vita, che non doveva sprecarla spacciando droga, ma non lo fece.
“Lasciami Alex. Ti prego.”
Gettò i resti della bottiglia a terra, la teneva ferma per i polsi, il barista e qualche cliente gli gridarono di lasciarla andare. Alex seguì il consiglio e si allontanò.
“Puttana. Anzi, puttane tutte e due. Tu e tua figlia. La pagherete per quello mi hai fatto, troia!”
Rachele aveva paura e voleva tornare a casa, ma quella minaccia glielo impedì. Decisa, raccolse la bottiglia rotta da terra e si avventò su di lui, nessuno riuscì a impedirglielo; una, due, tre volte affondò i vetri nella sua pelle. Dopo un attimo guardò il corpo esanime del padre di sua figlia; il sangue continuava a scorrere via, ne aveva le mani ed i vestiti pieni. Gettò lontano la bottiglia e si sedette a terra piangendo. Non si mosse fino a che non vennero a portarla via. E adesso cosa sarebbe stato di quella cosa che non aveva mai potuto chiamare famiglia? Della sua bambina?
Voleva ritrovare quel balordo perché sua figlia avesse un padre ed era riuscita a negarle anche questo. Adesso era sola. Erano entrambe sole adesso.
Una ragazza magra, sui ventitré anni era intenta a truccarsi mentre pensava a quella che avrebbe dovuto essere la sua famiglia: una bambina di cinque anni piazzata alla cugina e un uomo finito chissà dove. Le sue dita nodose passarono con attenzione la matita sul contorno del labbro superiore e misero il rossetto con il pennellino. Guardando il suo riflesso sullo specchio pieno di ditate si chiese se non si fosse data troppo trucco.
“Rachele! Hai finito?”
Quella grassona di Anna rompeva.
“Un minuto! E che cazzo!”
E poi pretendono di chiamarla libertà, vigilata, ma libertà la chiamano!
Si sciacquò le mani ed uscì dal bagno, davanti alla porta stava Anna con quel suo grugno incazzato.
“Ecco, è tutto tuo il cesso.”
Spianò le pieghe sulla minigonna e pensò che forse sarebbe stato meglio non mettersi tutta in tiro con i vestiti di quella vecchia prostituta ladruncola della sua compagna di stanza. Guardò Nicola, il tizio quasi-secondino che doveva starle tra le scatole quella sera. Un pigro. Era sbracato sulla sedia di plastica e biascicava una gomma.
“Posso uscire?”
Quello fece un assonnato cenno di assenso indicando la porta. Rachele uscì. Fuori c’era un vento gelido: forse aveva davvero esagerato con quei vestiti, le sembrava di dover andare a battere, ma ormai era troppo tardi. Prese la metro, le stazioni deserte si susseguivano davanti ai suoi occhi mentre si avvicinava al centro. La ragazza continuava ad immaginarsi il volto di sua figlia che sicuramente stava già dormendo. Scesa dal treno raggiunse una di quelle viuzze laterali che danno sulla piazza e dopo qualche passo sull’asfalto bagnato si fermò a guardare il locale dove aveva passato tante notti insonni. Erano le dieci di sera di un giorno feriale ed il bar aveva già assunto l’atmosfera particolare dei posti chiusi: gli sgabelli erano appoggiati sul bancone, i bicchieri tutti puliti e in ordine, le bottiglie di alcolici luccicavano alla debole luce che veniva dal retro. Entrò silenziosamente e si avvicinò cauta alla porta della stanza illuminata alla ricerca di Grazia, la proprietaria. Erano amiche da tempo e anche se non si vedevano da tanto, Rachele ricordava le sue abitudini, come quella di tornare a casa a tarda notte dal lavoro. Sbirciando, infatti, era riuscita a vederla controllare che la porta di servizio fosse ben chiusa. Bussò, si salutarono e parlarono un bel po’ prima che Rachele arrivasse al punto:
“Sai che fine ha fatto Alex?”
“So che si è fatto qualche mese per detenzione di stupefacenti, ma adesso non ho la più pallida idea di dove sia. Puoi sentire Alberto al pub, magari sa qualcosa più di me, io non so altro.”
“Grazie lo stesso Grazia, mi sei stata d’aiuto comunque. Adesso ti lascio tornare a casa, buonanotte.”
“Buonanotte. Guarda di farti vedere un po’ più spesso.”
Uscendo dal bar di Grazia, Rachele si chiese per l’ennesima volta se fosse una buona idea andare a cercare quel poco di buono, ma non ci pensò a lungo. Le apparve davanti agli occhi l’immagine di sua figlia, si disse che a quell’ora stava sicuramente dormendo; si decise a continuare la ricerca ed allungò il passo. Stava attraversando strade buie e deserte e avrebbe avuto paura di incontrare qualche delinquente se non si fosse sentita lei una delinquente con quei vestiti e la libertà vigilata da scontare per altri sette mesi. Al pub c’era gente, e neanche poca; entrò e si guardò intorno cercando qualche volto conosciuto. Era lì, Alex. Lo riconobbe in mezzo ad un gruppo di persone, aveva una bottiglia in mano e discuteva animatamente con un tizio puntandogli un dito contro. Rachele lo chiamò, lui si voltò. Dalla sua faccia si vedeva che non era soltanto sbronzo, all’inizio non la riconobbe e si avvicinò.
“Oh, buonasera bella troietta, sei tornata per scopare con me?”
Rachele capì non era affatto un buon momento per parlargli, la sua testa si affollò di voci che non facevano altro che ripetere: come ha fatto a venirti in mente un’idea simile! Fece per andarsene come se non fosse successo niente, ma Alex la spinse contro il muro.
“Che cazzo fai? Te ne vai? Brutta troia! Puttana! Mi hai rovinato la vita!”
Continuando a gridare, spaccò la bottiglia contro il muro.
“Alex lasciami stare. Non è stata colpa mia...”
“Ah, davvero? Stronza! Sei stata una stronza! Lo sapevi che Omar mi aveva dato la roba quella sera! Troia!”
Voleva gridargli contro, arrabbiarsi con lui, urlargli di smetterla, che adesso poteva avere una vita, che non doveva sprecarla spacciando droga, ma non lo fece.
“Lasciami Alex. Ti prego.”
Gettò i resti della bottiglia a terra, la teneva ferma per i polsi, il barista e qualche cliente gli gridarono di lasciarla andare. Alex seguì il consiglio e si allontanò.
“Puttana. Anzi, puttane tutte e due. Tu e tua figlia. La pagherete per quello mi hai fatto, troia!”
Rachele aveva paura e voleva tornare a casa, ma quella minaccia glielo impedì. Decisa, raccolse la bottiglia rotta da terra e si avventò su di lui, nessuno riuscì a impedirglielo; una, due, tre volte affondò i vetri nella sua pelle. Dopo un attimo guardò il corpo esanime del padre di sua figlia; il sangue continuava a scorrere via, ne aveva le mani ed i vestiti pieni. Gettò lontano la bottiglia e si sedette a terra piangendo. Non si mosse fino a che non vennero a portarla via. E adesso cosa sarebbe stato di quella cosa che non aveva mai potuto chiamare famiglia? Della sua bambina?
Voleva ritrovare quel balordo perché sua figlia avesse un padre ed era riuscita a negarle anche questo. Adesso era sola. Erano entrambe sole adesso.
Novembre ’97: condanna
Molti guardavano fuori dalla finestra o si fissavano le dita delle mani, nella stanza c’era un silenzio pesante. Qualcuno tossì. Sabrina aveva il singhiozzo e si sentiva davvero fuori luogo in quel posto pieno di adulti. Non aveva neanche capito perché era lì, ce l’aveva portata Angelica che adesso stava lì accanto a lei ; faceva quasi paura così silenziosa e immobile. All’improvviso in mezzo a tutto quel silenzio entrò un uomo distinto, tutto vestito di grigio, anche le scarpe; disse qualcosa con una voce calma e tranquilla, ma Sabrina non aveva capito niente: quello usava solo paroloni difficili. Angelica però doveva aver capito, perché si era spostata a sedere sulla sedia e adesso stava proprio sul bordo, come se fosse pronta a scappare via di corsa; la sua faccia era preoccupata. Nella stanza entrò un altro tizio che disse che potevano entrare. Entrare dove?
“Dove andiamo?” Sabrina era riuscita a chiederlo ad Angelica mentre si alzava, piano piano, con un sussurro, perché, nonostante che tutti si stessero alzando dalle sedie, c’era ancora un gran silenzio. Ma Angelica non aveva risposto. Le aveva preso la mano però, e la stava conducendo al dì là dalla porta da cui era uscito il secondo tizio. Lì c’era una stanza buffa, lunga lunga, e da una parte c’erano tanti banchi con le sedie e dei telefoni, ma Sabrina ed Angelica non si fermarono ed entrarono in un’altra stanza, molto più piccola; era buia, ma quando entrarono si accese una luce forte, c’era un tavolo con due sedie vuote e due occupate. Al tavolo, infatti, c’era una guardia (un’altra stava in piedi), e c’era Rachele.
“Mamma!”
Sabrina fece per correre dalla madre, ma Angelica la trattene per il braccio.
Perché?
Sabrina si sedette e guardò la madre che sorrideva triste.
Perché aveva addosso una tuta?
Perché stava dall’altra parte del tavolo?
Perché non poteva abbracciarla?
Sabrina non capiva più niente e intanto sua madre sorrideva, anche se dall’espressione pareva più triste che felice, e non la guardava. Sabrina fissava la madre in silenzio, esclusa dai discorsi che intanto erano incominciati tra i tre adulti, specialmente tra la guardia e Angelica, ma Rachele sfuggiva il suo sguardo. Improvvisamente si sentì un grido proveniente da un’altra stanza, una voce di donna. La guardia uscì; si era fatto silenzio di nuovo e Sabrina si era voltata verso la porta. La guardia rientrò quasi subito scuotendo la testa e ricominciarono a parlare:
“Dunque le ripeto gli orari: ogni sabato dalle 15 alle 17 per non più di quindici minuti. E' tutto chiaro?”
Angelica assentì e Sabrina tornò a guardare sua madre, adesso sembrava esclusa anche lei dalla discussione. La guardia si alzò:
“Bene, abbiamo finito. Può andare.”
Angelica si alzò e fece alzare anche Sabrina; adesso Rachele la stava guardando. Si alzò ed andò ad abbracciare la figlia, le disse che le dispiaceva e le chiese scusa, poi fu allontanata dalla guardia. Sabrina aveva visto le sue lacrime.
Quella sera Angelica le spiegò che sua madre era in prigione perché aveva ucciso un uomo e che non sarebbe tornata presto.
Molti guardavano fuori dalla finestra o si fissavano le dita delle mani, nella stanza c’era un silenzio pesante. Qualcuno tossì. Sabrina aveva il singhiozzo e si sentiva davvero fuori luogo in quel posto pieno di adulti. Non aveva neanche capito perché era lì, ce l’aveva portata Angelica che adesso stava lì accanto a lei ; faceva quasi paura così silenziosa e immobile. All’improvviso in mezzo a tutto quel silenzio entrò un uomo distinto, tutto vestito di grigio, anche le scarpe; disse qualcosa con una voce calma e tranquilla, ma Sabrina non aveva capito niente: quello usava solo paroloni difficili. Angelica però doveva aver capito, perché si era spostata a sedere sulla sedia e adesso stava proprio sul bordo, come se fosse pronta a scappare via di corsa; la sua faccia era preoccupata. Nella stanza entrò un altro tizio che disse che potevano entrare. Entrare dove?
“Dove andiamo?” Sabrina era riuscita a chiederlo ad Angelica mentre si alzava, piano piano, con un sussurro, perché, nonostante che tutti si stessero alzando dalle sedie, c’era ancora un gran silenzio. Ma Angelica non aveva risposto. Le aveva preso la mano però, e la stava conducendo al dì là dalla porta da cui era uscito il secondo tizio. Lì c’era una stanza buffa, lunga lunga, e da una parte c’erano tanti banchi con le sedie e dei telefoni, ma Sabrina ed Angelica non si fermarono ed entrarono in un’altra stanza, molto più piccola; era buia, ma quando entrarono si accese una luce forte, c’era un tavolo con due sedie vuote e due occupate. Al tavolo, infatti, c’era una guardia (un’altra stava in piedi), e c’era Rachele.
“Mamma!”
Sabrina fece per correre dalla madre, ma Angelica la trattene per il braccio.
Perché?
Sabrina si sedette e guardò la madre che sorrideva triste.
Perché aveva addosso una tuta?
Perché stava dall’altra parte del tavolo?
Perché non poteva abbracciarla?
Sabrina non capiva più niente e intanto sua madre sorrideva, anche se dall’espressione pareva più triste che felice, e non la guardava. Sabrina fissava la madre in silenzio, esclusa dai discorsi che intanto erano incominciati tra i tre adulti, specialmente tra la guardia e Angelica, ma Rachele sfuggiva il suo sguardo. Improvvisamente si sentì un grido proveniente da un’altra stanza, una voce di donna. La guardia uscì; si era fatto silenzio di nuovo e Sabrina si era voltata verso la porta. La guardia rientrò quasi subito scuotendo la testa e ricominciarono a parlare:
“Dunque le ripeto gli orari: ogni sabato dalle 15 alle 17 per non più di quindici minuti. E' tutto chiaro?”
Angelica assentì e Sabrina tornò a guardare sua madre, adesso sembrava esclusa anche lei dalla discussione. La guardia si alzò:
“Bene, abbiamo finito. Può andare.”
Angelica si alzò e fece alzare anche Sabrina; adesso Rachele la stava guardando. Si alzò ed andò ad abbracciare la figlia, le disse che le dispiaceva e le chiese scusa, poi fu allontanata dalla guardia. Sabrina aveva visto le sue lacrime.
Quella sera Angelica le spiegò che sua madre era in prigione perché aveva ucciso un uomo e che non sarebbe tornata presto.
Gennaio ’07: permesso premio
Sabrina sbatté la porta.
Adesso doveva venirlo a sapere! Cazzo! Aveva quasi quindici anni! Non bastavano la vergogna e le bugie raccontate alle maestre e ai compagni dalle elementari per non dover dire “mia madre è in prigione”! Almeno “mio padre è morto quand’ero piccola” reggeva e nessuno le chiedeva altro, ma per tutto quel tempo Angelica non le aveva detto niente! Fantastico! “Mia madre sta in galera perché ha ammazzato mio padre”! Roba da soap opera.
“Sabrina! Apri la porta!”
“Sta zitta, mamma!”
Si chiuse a chiave in camera ed aspettò in silenzio finché non sentì i passi della madre sulle scale, poi uscì dalla finestra. Fece attenzione a non essere vista dalla finestra del soggiorno ed imboccò la strada in direzione della periferia. Dopo un paio di isolati trovò Leo ed i suoi amici vagabondi a ciondolare vicino al campo da basket, c’erano anche un paio di ragazzi con lo skate. Salutò Leo e si fece dare una sigaretta.
“Sabri, com’è?”
“Tutto ok...”
“Sicura? Hai una faccia strana.”
“No, no. Sto bene.”
Appoggiò la schiena al muro e accese la cicca.
“Leo, ma te l’hai più rivisto tuo padre dopo che i tuoi si sono lasciati?”
“No, neanche una telefonata. Perché me lo chiedi?”
“Niente, curiosità.”
Sabrina sbatté la porta.
Adesso doveva venirlo a sapere! Cazzo! Aveva quasi quindici anni! Non bastavano la vergogna e le bugie raccontate alle maestre e ai compagni dalle elementari per non dover dire “mia madre è in prigione”! Almeno “mio padre è morto quand’ero piccola” reggeva e nessuno le chiedeva altro, ma per tutto quel tempo Angelica non le aveva detto niente! Fantastico! “Mia madre sta in galera perché ha ammazzato mio padre”! Roba da soap opera.
“Sabrina! Apri la porta!”
“Sta zitta, mamma!”
Si chiuse a chiave in camera ed aspettò in silenzio finché non sentì i passi della madre sulle scale, poi uscì dalla finestra. Fece attenzione a non essere vista dalla finestra del soggiorno ed imboccò la strada in direzione della periferia. Dopo un paio di isolati trovò Leo ed i suoi amici vagabondi a ciondolare vicino al campo da basket, c’erano anche un paio di ragazzi con lo skate. Salutò Leo e si fece dare una sigaretta.
“Sabri, com’è?”
“Tutto ok...”
“Sicura? Hai una faccia strana.”
“No, no. Sto bene.”
Appoggiò la schiena al muro e accese la cicca.
“Leo, ma te l’hai più rivisto tuo padre dopo che i tuoi si sono lasciati?”
“No, neanche una telefonata. Perché me lo chiedi?”
“Niente, curiosità.”
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